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attento che morde

"Attento che morde!"

 

 

Sto camminando lungo una strada di campagna, a ridosso delle case di un piccolo borgo, la rugiada notturna ha steso un sottile velo d’acqua su foglie, arbusti ed  erba. Mi fermo, guardo le scarpe, sono bagnate. In lontananza due suoni, le campane che accompagnano le ore nei giorni di festa e il ronzio indistinto di un motore.

I colori e la luce sono quelli di un autunno inoltrato, la temperatura non fredda è mitigata da un sole che filtra basso tra i rami spogli e scalda il viso. Due imponenti pioppi conservano le ultime foglie sui rami, presto una gelida tramontana le farà volare via e completeranno un mosaico giallo appoggiato dolcemente su un tappeto di erba sorprendentemente verde in questa stagione.

Proseguo il cammino fino a raggiungere il fianco di una collina che, chissà chi e quando, ha pazientemente modellato in terrazze. Oggi sono orti e prati punteggiati da alberi e viti.

 

Mi sorprende un rumore, lo distinguo bene ora: la motosega si sta facendo strada nei tronchi abbattuti di un vicino bosco. Siamo in un periodo, del recente passato, durante il quale la legna da ardere rappresenta un bene prezioso e largamente utilizzato, per combattere i rigori degli inverno, non ancora mitigati da quello che oggi, la maggior parte di noi, considera un'ineluttabile eredità del progresso: l’effetto serra.

 

Mi avvicino ancora e mi ritrovo tra i tronchi che ricordano giochi di fiammiferi. Il rumore del motore è stato sostituito dalle voci di uomini indaffarati, li vedo lavorare con asce e falcetti. Le scuri, dal ferro splendente, sono conficcate in un ceppo, in attesa di fendere la base di qualche albero che ancora svetta verso un cielo, incredibilmente azzurro.

 

Le loro scarpe sono infangate, come le mie ormai, il loro abbigliamento più adatto ad una calda primavera che ad un freddo inverno tradisce la fatica e il sudore del loro lavoro.

 

Noto alcuni tronchi spogliati. I loro rami sono stati accatastati in disparte per poi essere trasformati in fascine o in paletti per pomodori e fagioli o “frasche” per i piselli. Saranno preziosi in primavera quando l’orto uscirà da suo letargo invernale.

 

“Attento, guarda che ti fai male”, sono il più giovane di questa squadra, molti i consigli e gli ammonimenti che mi vengono indirizzati, anche se, come sempre, sono pochi quelli che raccolgo.

 

Indosso i guanti, le mie mani di studente sono poco adatte all’utilizzo degli attrezzi da boscaiolo e, mosso da una curiosità innata e dalla voglia di provare, raccolgo una piccola ascia incustodita. Mi avvicino ad un cespuglio di sambuco destinato ad ingrossare la catasta delle fascine. Inizio a vibrare alcuni fendenti alla base della pianta. La prima impressione è che il tronco sia fatto di acciaio, riesco a malapena a scalfirlo. Sento una voce da dietro: “lascia perdere lo taglio io in un attimo con la motosega”. E' mio fratello, non so se vuole evitarmi una fatica o ha il terrore che possa farmi male.

 

Proseguo con i fendenti, la mia precisione lascia molto a desiderare, probabilmente mio padre con tre colpi ben assestati avrebbe risolto la faccenda. Alla fine anch’io ottengo il risultato sperato, nulla a che vedere con la caduta di una albero: il sambuco con la forma rotondeggiante si adagia sul terreno senza fragore o spettacolarità.

 

Proseguo la mia opera cercando di sfrondare il piccolo tronco incurvato dal peso dei rami. Il mio sguardo è attratto da qualcosa di insolito: un ciuffo d’erba impigliato  in corrispondenza di una biforcazione.  Mi fermo, scosto i rametti che mi separano dal batuffolo erboso, lo raccolgo e mi rendo conto immediatamente che l’erba forma un nido. C’è però qualcosa di strano: questo non è aperto verso l’alto. Cerco di  vedere cosa contiene.

Quasi mi spavento quando vi scopro un animaletto grande come un topo di campagna, ma simile ad un piccolo scoiattolo.

Lo mostro a mio papà, il nido ed il suo abitante mi sembravano ancora più piccoli tra le sue mani abituate a modellare i sassi. “E’ una gira”, la sua risposta, “attento che morde” il suo monito.

 

www.comune.carpineti.re.it/.../gli_animali.php

In realtà si trattava di un moscardino, una specie di ghiro, anche se più piccolo, (una “gira” appunto, secondo l’idioma che era la lingua madre dei nostri vecchi).

L’animaletto, evidentemente in letargo, non dava praticamente segni di vita, mi sembrava di aver catturato una preda ambitissima, anche se in me non albergava nessun sentimento ostile nei suoi confronti.

Ho abbandonato il bosco e mi sono avviato verso casa ripercorrendo la stradina di campagna, questa volta le mie scarpe non presentavano segni di umidità ma solo i resti del fango ancora ben visibili. Il sole tiepido aveva asciugato i prati e dipinto nelle valli, che si aprivano verso un lago vicino, i fumi della nebbia.

 

Aumento il passo sul selciato del borgo, prima di entrare in casa. L’animaletto, nel frattempo, a causa degli scossoni e del tepore delle mie mani stava dando segni di risveglio. In prossimità dell’uscio, abbandonata da tempo, si trovava una gabbietta che aveva ospitato generazioni di canarini. Dopo aver aperto lo sportello e deposto il piccolo fardello sul fondo mostrai a mia mamma l’ambita preda.

 

“E’ un ghiro”, mi disse, “attento che morde”. Questa indicazione l’avevo già sentita. Mi sono fermato a guadare,  il moscardino si era quasi completamente risvegliato dal suo torpore. Ancor oggi mi piace pensare che sia stato il caldo e l’inconfondibile profumo del lesso, che la domenica era come la messa, un precetto, a restituirgli vitalità.

 

Ero ipnotizzato, avevo finalmente anch’io un animaletto, diverso dai tanti gatti che si sono susseguiti nel tempo e dei quali ho sempre mal sopportato la presenza, soprattutto da adulti.

 

Non c’è voluto molto a completare il risveglio del mio nuovo amico. Lo vedevo muoversi agevolmente tra le piccole sbarre di quella che a me sembrava una piacevole dimora, ma per lui era una piccola prigione. Il quel momento non avevo la consapevolezza di questa situazione e del tempo trascorso osservandolo.

Era da poco passato il mezzogiorno quando in tavola apparve il risotto, anche questo un piacevole rito della festa e tutti pronti ad apprezzarne il gusto. Per la verità il moscardino non rientrava nei discorsi dei commensali. Non ricordo quali fossero ma di solito si trattava di lavoro, orto, bosco e raramente di parenti,  nel caso fosse arrivata una telefonata da chissà dove (eravamo lontani dalle tecnologia di oggi, i telefoni avevano ancora il disco e suonavano come campanili).

 

Non sempre ero interessato agli argomenti intorno ai quali ruotava la discussione, mi avvicinai alla gabbietta, mi chiedevo se anche il mio piccolo ospite non avesse fame. Mosso da un nobile intento ho raccolto da tavola un pezzetto di pane, per poterlo deporre all’interno infilai una mano dallo sportello. Non ebbi il tempo di rendermi neppure conte che, mentre lo avvicinavo all’animaletto, evidentemente terrorizzato dalla situazione, questi mi diede un morso sulla punta del dito.

Non fu il dolore a spaventarmi, ma la sua reazione.

Mi resi conto in pochi istanti che qualcosa non quadrava: perché mi aveva morso, lo stavo nutrendo ?

Mi sono ricordato immediatamente del doppio monito: “attento che morde”. Ho visto la gabbia, non era più la simpatica dimora che mi ero figurato.

La conclusione è stata veloce quasi come la sua reazione: lui non ha bisogno di me, anzi mi teme. Dalla tavola sentii mio papà che diceva “lascialo andare, oggi lo riportiamo in campagna”. Infatti dopo il caffè e il breve sonnellino per smaltire l’effetto soporifero del pranzo, siamo tornati nel bosco e non senza rimpianti ho liberato il piccolo e simpatico roditore, lasciando il suo nido sul terreno.

 

Non l’ho più rivisto. Nelle settimane seguenti, tornando nell’orto, guardavo le fronde per scorgere almeno il suo nido. Di quell'incontro  mi è rimase solo  un batuffolo d’erba a terra, vicino ad una albero che le piogge primaverili  confusero con il terreno.

 

A distanza di anni, non pochi, con qualche capello bianco e con le stesse mani non avvezze ai manici di zappe, vanghe, e scuri, mi emoziona ancora raccontare quello che, a prima vista, può essere letto come un banale episodio, accaduto in un ambiente quasi bucolico.

Di fatto ha rappresentato una pietra miliare nel mio modo di approcciare la natura.

Da quel giorno non ho più catturato animali, lo avevo fatto solo con le lucertole fino ad allora, ma ho cercato di conoscerli ed incontrarli a casa loro, senza rinchiuderli in gabbie più o meno dorate.

 

Ritrovo ancora la stessa emozione di allora nell’incontrare i pesci nel mare e gli animali nei boschi. Non mi pesa la fatica di una camminata o di una levataccia per una immersione.  Spero di continuare a catturare animali con la macchina fotografica e con la telecamera, di poterli condividere con altri, appassionati o meno, cercando però di scoraggiare qualsiasi azione che possa scatenare una reazione simile a quella del mio piccolo amico del bosco.