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Dietro la curva una miniera di argento

 

 

 

Bastano due nomi per indicare una singolare località, Val Castellera e Valvassera: una piccola valle incisa nel calcare, adagiata sul porfido rosa, e una miniera di argento e piombo abbandonata da anni.

Ci troviamo in Val Ganna, in corrispondenza di una doppia curva a metà tra le Grotte di Valganna e l’abitato di Ganna, nel territorio del Parco Regionale del Campo dei Fiori.

Bisogna incamminarsi lungo una laterale della statale 233 “Varesina” (i pannelli indicatori del Parco sono un punto di riferimento importante).

Dopo aver superato la sbarra che impedisce l’accesso alle autovetture, è sufficiente percorrere  pochi metri per far si che il rumore dei motori lasci il posto ai suoni della natura. Siamo giunti in un bosco di latifoglie in cui l’umidità del terreno è indicata dalla abbondante presenza di muschio.

Proseguendo verso quello che una volta doveva essere il cancello di ingresso dell’insediamento produttivo incrociamo il Sentiero del  Giubileo, che forma una galleria naturale tra le piante in direzione della Badia di S. Gemolo a Ganna. Troviamo un altro pannello che riporta la mappa topografica della zona ed il sentiero che ci condurrà alla miniera.

Seminascosto da alcuni abeti appare il rudere di un vecchio edificio, che doveva ospitare la residenza dei minatori e gli uffici della miniera. La zona è transennata e pericolante: dobbiamo perciò avvicinarci con attenzione ed evitare di superare gli sbarramenti.

Inoltre alcuni tavoli, collocati dai gestori del Parco, consentono una piacevole sosta a coloro che desiderano fermarsi.

Il percorso prosegue in direzione della Val Castellera, lungo il greto, spesso asciutto, del torrente che le dà il nome. 

Si possono già notare dei massi dal colore rosa, caratteristico del porfido che ritroveremo al termine del nostro itinerario, mentre la parte iniziale della valle, risalendo il corso d’acqua, è scavata nel calcare.

Tra la vegetazione sono rimasti, alcuni i pilastri in cemento armato, che sostenevano i macchinari per la lavorazione del minerale. Inoltriamoci verso destra, troviamo una cabina elettrica non più attiva, che porta i segni lasciati da qualche anonimo graffitaro. 

In questo punto inizia la salita lungo un sentiero molto ampio e non troppo scosceso, il cui fondo è sassoso e spesso coperto da foglie. Siamo in uno splendido castagneto; e con un po’ di fortuna potremmo trovare qualche prezioso frutto anche fuori stagione. 

Non può passare inosservato il sottobosco, nelle zone illuminate dal sole è spesso presente l’erica. 

Dobbiamo ricordarci che siamo in un parco e perciò possiamo rubare solo immagini: se lasciamo tutto come lo abbiamo trovato, questo splendido ambiente ci accoglierà intatto ogni volta che vi faremo ritorno.

Al termine del primo dei due tornati proseguiamo dritti qualche metro verso un balcone naturale posto alla sommità dei ruderi che abbiamo visto più in basso. Il versante opposto è un susseguirsi di canaloni scoscesi, piccole macchie di vegetazione e fazzoletti di erba che in autunno assumono il colore dell’oro.

Il sentiero prosegue ancora per poco in salita, diventa leggermente più stretto ma assolutamente agevole e  ci porterà a raggiungere quasi la massima quota del nostro itinerario. Alla sommità la visuale si allarga da una parte verso la pianura, dall’altra verso la Valganna. 

Il tempo di riposarci per un  momento ci consente di osservare la Martica di fronte a noi: un mantello di erba ed arbusti ricopre lo scrigno che la miniera ha cercato di svelare. 

Senza accorgersene le nostre gambe ci stanno già portando lungo la seconda parte del sentiero, quasi pianeggiante, che risale la valle lungo il lato destro (sinistra orografica).

Qui il paesaggio cambia: il castagno lascia spazio al prato, profumi di erba erica e terra rendono ancora più incantevole gli spazi aperti che ci accolgono. Le “piccole” querce, che hanno vinto più di un rogo, ci fanno compagnia lungo tutto il tragitto, celano la loro età, crescono piano su un suolo avaro di acqua. Siamo infatti a contatto con un mantello calcareo, molto permeabile che ricopre la montagna. Dove il porfido affiora spesso incrociamo piccoli corsi d’acqua che cantano in un ambiente che sembra emerso da una fiaba.

Lungo il sentiero troviamo anche una profonda forra che ci apre la vista verso il torrente sul fondo della valle. Proseguendo anche il corso d’acqua si fa più vicino e il suo bisbiglio ci farà compagnia fino alla miniera.

La vegetazione si fa un po’ più fitta e in men che non si dica ci troviamo a contatto con uno spettacolo unico. 

Il ruscello, sempre molto ricco di acqua anche durante i periodi secchi, scorre su un letto di roccia in un piccolo bosco di querce e castagni. Le sue acque hanno svelato l’arcano di questa montagna: sotto il bianco calcare si trova il rosa del porfido, nel quale l’uomo ha scavato per raccogliere l’essenza preziosa celata in questa pietra antica.

Vedremo presto alcuni spezzoni di rotaie. Erano la spina dorsale di un binario che serviva al trasporto del minerale sui carrelli: il tempo e l’incuria li hanno consegnati all’oblio.

Rimane ancora qualche rottame delle attrezzature, probabilmente allora utilizzate per lavare il materiale estratto. 

In questo mondo quasi irreale appaiono alcuni terrapieni formati dagli scarti dell’estrazione e le spalle di un ponticello in legno che le stagioni hanno consumato.

La nostra attenzione cade inevitabilmente su alcuni manufatti simili a piccole fornaci, che si trovano a ridosso della montagna. 

Seguendo il corso di un piccolo rigagnolo, vicino ad una cascatella alta qualche metro, ci appare l’imboccatura di uno dei cunicoli. L’apertura è piccola, gli uomini che hanno lasciato in questo luogo la loro fatica si sono spinti in questi budelli alla ricerca di un frutto raro, abbandonando la luce del giorno per quella flebile di una lampada al carburo.

Si rimane titubanti davanti a questa porta che si apre verso l’ignoto: meglio non superarla, le cavità di questa miniera infatti sono ancora accessibili ma potrebbero nascondere insidie fin dai primi metri.

Muri a secco e manufatti ci raccontano di persone, come formiche, che hanno lavorato sodo, confinate in un mondo rumoroso di ferraglia e sassi rotti, fumoso di camini ansimanti e di freddo riscaldato. 

Torniamo con lo sguardo al bosco, all’acqua limpida, all’erba che copre tutto lo spazio lasciato alla luce. La natura e il trascorrere del tempo hanno trasformato questo luogo incantato in un piccolo gioiello, nascosto alla vista dei più, che oggi possiamo ammirare e raccontare, del quale possiamo percepire il profumo e sentire la voce, accompagnati dal rosa della roccia e dal giallo dell’erba che ci illuminano. 

Quando ci lasciamo alle spalle questo scorcio di terra, ci rimangono addosso irripetibili sensazioni e voglia di tornare, per scoprire un nuovo angolo di questo universo inesplorato. E’ il nostro modo per proseguire la fiaba!

 

Vediamo dal cielo

 

Vediamo le miniere dall'interno (immagini a cura del Gruppo Grotte CAI Gallarate)

 

Autore Pino Farè

 
 
 

 

 
 

Pino Farè fare.pino@alice.it